19 luglio 1992: la strage di Via D’Amelio. Un ricordo di Paolo Borsellino, eroe dell’antimafia

Il magistrato ucciso da Cosa Nostra, ma sempre vivo nel ricordo degli italiani onesti

Paolo Emanuele Borsellino era nato a Palermo il 19 gennaio del 1940, e dopo la maturità liceale si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza laureandosi con il punteggio massimo; il padre morì pochi giorni dopo, per cui la famiglia visse un periodo di crisi economica, tanto che il futuro magistrato fu esentato dal servizio militare essendone l’unico sostentamento. Nel 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di un magistrato presidente del tribunale di Palermo; i due ebbero tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.

“È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.”

Nel 1963 Borsellino entrò nella magistratura divenendo il più giovane magistrato d’Italia, avendo vari incarichi tra Enna, Mazara del Vallo e Monreale, per poi approdare al tribunale di Palermo; dal 1980 cominciò ad occuparsi di mafia assieme al capitano dei carabinieri Emanuele Basile, continuando le indagini cominciate da Giorgio Boris Giuliano, poliziotto ucciso dalla mafia nel luglio del 1979, così come nel maggio del 1980 verrà assassinato lo stesso capitano Basile. Da quel momenti Borsellino vivrà sotto scorta.

È normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti.”

Fu in quel periodo che il giudice Rocco Chinnici istituì il pool antimafia (del quale entrerà a far parte anche Giovanni Falcone), ma nel 1983 fu assassinato tramite un’autobomba, venendo sostituito dal giudice Antonino Caponnetto. Il pool riuscì, grazie al lavoro di squadra, ad avere una visione completa e d’insieme del fenomeno mafioso, riuscendo ben presto ad ottenere notevoli risultati: grazie alle dichiarazioni dei pentiti Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno furono emanati 493 ordini di cattura. Ed il 10 febbraio del 1986 cominciò il maxiprocesso a Cosa Nostra nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone a Palermo, che si concluderò il 16 dicembre del 1986 con 342 condanne detentive per un totale di 2665 anni di reclusione.

“A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato.”

Nel dicembre di quello steso 1986 Borsellino venne nominato Procuratore della Repubblica a Marsala (occupandosi anche della strage di Ustica) e nel 1987 entrò in rotta con il Consiglio Superiore della Magistratura (rischiando un provvedimento disciplinare per le dichiarazioni rilasciate) dopo la mancata nomina di Falcone a capo del pool antimafia conseguentemente al ritiro di Caponnetto per motivi di salute. Nel 1991 Borsellino ebbe poi conferma, dal pentito Vincenzo Calcara, che Cosa Nostra aveva deciso di assassinarlo. Nel 1992 Borsellino fece ritorno a Palermo come procuratore aggiunto, lo stesso anno in cui, il 23 maggio, vi fu la strage di Capaci nella quale venne ucciso il suo collega ed amico d’infanzia Giovanni Falcone.

“Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Il 21 maggio del 1992 Borsellino tenne un’intervista per l’emittente francese Canal+, nella quale parlò dei rapporti tra il mafioso Vittorio Mangano (noto come “lo stalliere di Arcore”) e Marcello Dell’Utri (cofondatore di Forza Italia), astenendosi però dal dare giudizi espliciti su Silvio Berlusconi, poiché coperto da segreto istruttorio. Questa intervista venne poi definita “l’intervista nascosta”, dato che non venne diffusa se non il 19 settembre del 2000 in tarda serata e con molti tagli e rimaneggiamenti, dato che evidentemente non si voleva che quanto affermato da Borsellino venisse diffuso presso il grande pubblico.

“La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

Il 19 luglio del 1992 Paolo Borsellino si recò, insieme alla scorta, in via D’Amelio dove vivevano sua madre e sua sorella Rita; alle 16:58 un’autobomba esplose al passaggio del giudice causandone la morte, oltre a quella degli agenti di scorta Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi (primo agente donna della Polizia di Stato a cadere in servizio); sopravvisse solo l’agente Antonino Vullo, al momento dell’esplosione impegnato a parcheggiare uno dei mezzi della scorta. I funerali si svolsero il 24 luglio, presente una folla di 10.000 persone e con l’orazione funebre che fu affidata ad Antoinino Caponnetto; la vedova del giudice rifiutò i funerali di Stato in polemica con le istituzioni. Al funerale degli agenti della scorta, svoltosi qualche giorno prima, vi furono dei disordini all’arrivo dei politici.

“Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.

Borsellino sapeva di essere nel mirino della mafia, così come sapeva che ben difficilmente l’organizzazione si lascia sfuggire gli obiettivi stabiliti; e difatti nell’intervista rilasciata il 24 giugno del 1992 riportò le parole di Ninnì Cassarà, il poliziotto assassinato nel 1985: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”.

“Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

Marco Ammendola

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