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AFFARI LEGALI. Calcolo interessi passivi: Altre pronunce sull’anatocismo

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La scorsa settimana è stato affrontato il tema piuttosto scottante degli abusi da parte degli istituti di credito all’atto di calcolare gli interessi passivi sui conti correnti dei risparmiatori italiani, fenomeno particolarmente preoccupante soprattutto in tempo di Covid.

Premessa la già prospettata distinzione tra interessi corrispettivi – i soli ad essere presi in considerazione in questo contesto –  compensativi e moratori, si è posto l’accento sul fatto che, per lungo tempo, le banche abbiano adottato la prassi di addebitare trimestralmente gli interessi (a debito) su interessi già scaduti, prevedendo invece su base annuale il calcolo degli interessi a credito.

Tale disparità non poteva che comportare una perdita economica, talvolta anche ingente, per gli sfortunati correntisti, le cui doglianze hanno definitivamente trovato accoglimento con la pronuncia della Cassazione n. 21095 del 2004, che ha cristallizzato la nullità delle clausole anatocistiche per violazione dell’art. 1283 c.c.

Ebbene, la Suprema Corte, con una recente sentenza, non solo ha escluso di poter ravvisare un uso normativo idoneo a giustificare la capitalizzazione trimestrale degli interessi, ma ha altresì osservato che risulta assolutamente arbitrario trarne la conseguenza che in questo modo sia stata in via implicita riconosciuta legittima la  capitalizzazione annuale.

Quest’ultima, peraltro, secondo quanto fatto notare dall’organo giudicante, prima che difettare di normatività, francamente non si è mai concretizzata nella realtà storica, “o almeno non in quella dell’ultimo cinquantennio anteriore agli interventi normativi di fine anni novanta: periodo caratterizzato da una diffusa consuetudine – non accompagnata però dalla opinio iuris ac necessitatis – di capitalizzazione trimestrale, ma che non risulta affatto aver conosciuto anche una consuetudine di capitalizzazione annuale degli interessi debitori, né di necessario bilanciamento con quelli creditori”.

Quanto appena esposto significa che, anche nell’ipotesi in cui la banca calcolasse gli interessi a debito con la stessa cadenza con cui determina quelli a credito, e quindi annualmente, si tratterebbe comunque di un uso illegittimamente applicato, non avendo valenza alcuna l’arco temporale in relazione al quale viene effettuata detta capitalizzazione.

Una particolare sfumatura del problema sollevato dal cliente di una banca, in quale eccepisca la nullità della clausola contrattuale presa in considerazione, concerne la prescrizione dell’azione di ripetizione di indebito.

La norma interpretativa dell’art. 2935 c.c., con cui il legislatore aveva disposto che il termine prescrittivo dovesse decorrere a partire dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati (e non, come sostenuto da giurisprudenza maggioritaria, dal momento dell’estinzione del conto) non ha superato il vaglio di costituzionalità.

La Corte di legittimità, nel testo della sentenza n. 78 addirittura risalente al 5 aprile 2012, ha infatti sottolineato come la norma censurata abbia innovato la disciplina in materia senza che sussistano motivi imperativi d’interesse generale.

La Suprema Corte a Sezioni Unite ha altresì affermato che, nell’eventualità di risoluzione del rapporto di mutuo, fondiario o meno, il mutuatario, benché obbligato al pagamento integrale delle rate già scadute, nonché alla immediata restituzione della quota di capitale ancora dovuta, non è di converso tenuto al pagamento degli interessi conglobati nelle semestralità a scadere, dovendosi invece calcolare, sul credito così determinato, gli interessi di mora ad un tasso corrispondente a quello contrattualmente pattuito, se superiore al tasso legale.

Dottrina prevalente sostiene che il principio poc’anzi menzionato sia applicabile ai contratti che non contengono una pattuizione in deroga al divieto di anatocismo, posizione che suscita non poche polemiche e perplessità.

Roberta Romeo

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