Affari legali

AFFARI LEGALI. Pandemia da coronavirus ed obblighi di tutela per la salute dei lavoratori

Tutto quello che c'è da sapere in merito alle responsabilità

Uno dei problemi più rilevanti che ha comportato e tuttora comporta la situazione generata dal diffondersi della pandemia da “Coronavirus” riguarda la sicurezza del lavoratore nello svolgimento delle proprie mansioni, sia durante – per i soli settori produttivi rimasti sempre in funzione – sia dopo il cosiddetto “lockdown”.

A riguardo, vengono in evidenza, come quadro normativo di base, i principi fissati dall’art. 2087 C.C. (sull’obbligo del datore di garantire la salubrità e la sicurezza nell’ambiente di lavoro), nonché dal D.Lgs. n. 81/2008, ossia dalla disciplina specifica riguardante infortuni sul lavoro e malattie professionali. A questa legislazione di carattere generale si è aggiunta quella introdotta nello specifico dall’art. 42 del D.L. n. 18/2020, denominato “Cura Italia”, convertito con L. n° 27/2020.

La prima delle disposizioni in esame stabilisce la regola di massima per la quale, nell’ambito del rapporto contrattuale di lavoro, l’imprenditore “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Tale obbligo, anche per la formulazione e la collocazione sistematica della norma che lo introduce, è un vero e proprio principio cardine sussidiario che, a prescindere dalle regole più dettagliate stabilite dalla normativa speciale – e nel caso esse non siano applicabili nel caso concreto – impone al datore di lavoro di porre in essere tutte le cautele possibili per tutelare la salute del proprio dipendente, tenendo conto delle caratteristiche specifiche della prestazione lavorativa richiesta. Con la conseguenza che, nell’ipotesi di infortunio e di successivo contenzioso, sarà sempre onere dell’imprenditore, eventualmente convenuto in giudizio, dimostrare di aver adottato determinate misure.

Senonché, l’insorgere ed il diffondersi rapidissimo della malattia da coronavirus verificatosi in Italia negli ultimi mesi, ha posto in essere un quesito di natura eminentemente pratica, ma non per questo meno importante: appurato che talune attività, segnatamente quelle relative ai settori essenziali (trasporto merci, agroalimentare, servizi sanitari, fra gli altri) non potevano ovviamente essere interrotte e che, in ogni caso, anche la sospensione totale o parziale delle attività non direttamente essenziali non poteva protrarsi se non per un periodo di tempo limitato, come si poteva rapportare nel concreto l’obbligo datoriale di garantire la salute e la sicurezza in ambiente di lavoro con una patologia estremamente contagiosa, al punto da imporre in tutto il territorio nazionale addirittura provvedimenti fortemente limitativi delle libertà fondamentali dell’individuo? In altri termini, fino a che punto è possibile spingersi nell’esigere dall’imprenditore l’adozione di tutte le opportune tutele previste dall’art. 2087 e dal D.Lgs. n. 81/2008?

Sotto questo aspetto, purtroppo, la formulazione della disciplina di dettaglio da parte del Legislatore ha ingenerato più di un problema. Invero, l’art. 42, comma 2, del D.L. n. 18/2020, ha stabilito che “nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL, che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativatutela dell’infortunato. (….) I predetti eventi infortunisticigravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati.” Orbene, viene immediatamente all’evidenza che il decreto “Cura Italia”, nel trattare il problema “infezione da coronavirus” in ambito lavorativo fa una scelta precisa e consapevole: considera detto evento in ogni caso un “infortunio sul lavoro” e non (almeno in alcune ipotesi) una “malattia professionale”. Tale scelta terminologica e sistematica non è priva di conseguenze, anche potenzialmente serie, per il datore di lavoro.

Invero, proprio in virtù del quadro legislativo generale in materia, quest’ultimo si trova di fatto nelle condizioni di rischiare pesanti sanzioni, sia in ambito civilistico, sia penalistico, nel caso in cui uno dei suoi dipendenti, dopo aver eventualmente contratto il Covid-19, imputi il contagio a responsabilità datoriale.

E’ facile comprendere come la vastità delle possibili occasioni di contagio nell’arco di una giornata – non solo durante l’orario di lavoro, ma anche in occasione degli spostamenti del lavoratore dal proprio domicilio alla sede dell’impresa e, in generale per il compimento di attività di natura personale che nulla hanno a che vedere con la prestazione lavorativa – renda assai difficile l’individuazione in concreto dell’occasione in cui  il dipendente sia venuto a contatto con l’agente patogeno; tale ricerca diviene di fatto impossibile, poi, ove si consideri che il tempo di incubazione della malattia, secondo le attuali conoscenze, può arrivare anche a due settimane e che, assai spesso, l’infezione rimanga asintomatica per periodi di tempo più o meno lunghi, ben potendo il dipendente accorgersi di essere infetto con il manifestarsi dei primi disturbi anche diverse settimane dopo essere venuto in contatto con il SARS-COV2.

Il tutto con la conseguenza che, vista la sostanziale inversione dell’onere della prova a sfavore dell’imprenditore in caso di infortuni sul lavoro alla luce del noto quadro normativo generale, quest’ultimo si trovi a dover fornire la classica “probatio diabolica” di innocenza, per lo meno sul piano civilistico, qualora intenda sottrarsi ad eventuali richieste risarcitorie da parte del proprio dipendente. La questione sarebbe solo parzialmente mitigata nel campo penalistico, visto il diverso principio indicato dall’art. 533 c.p. (condanna solo in presenza di colpevolezza provata al di là di ogni dubbio ragionevole); parzialmente, ahimè, perchè detta regola è stata di fatto “neutralizzata” dalla sua interpretazione giurisprudenziale, con l’ulteriore corollario che l’imprenditore imputato di lesioni colpose – o, nella peggiore delle  ipotesi, di omicidio colposo – ai danni del lavoratore, aggravati dall’inosservanza sulle norme in materia di sicurezza sul lavoro, correrebbe il concreto rischio di una condanna a pene tutt’altro che leggere, senza d’altro avere alcuna possibilità di portare una prova sufficiente a dimostrazione della propria innocenza.

Alle numerose obiezioni su questo punto hanno tentato di porre rimedio i provvedimenti attuativi del decreto “Cura Italia”. In particolare, il DPCM 26 aprile 2020 ha fatto obbligo alle imprese che non abbiano sospeso l’attività, di osservare il “protocollo condiviso di regolamentazione delle misure di contrasto e contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali il 24 aprile 2020. Senonché, questo protocollo è di fatto in vigore dal 26 aprile, data di pubblicazione del DPCM, e riguarda le imprese che non abbiano cessato la loro attività durante il cosiddetto “lockdown”; in tale ambito sarà onere dei datori di lavoro la prova circa l’osservanza delle misure di contenimento previste dal protocollo di aprile, in caso di contagio di un loro dipendente.

Resta tuttavia da capire cosa accadrà a tutte le altre imprese, ossia quelle che hanno progressivamente ripreso la loro operatività dal 4 maggio 2020 in poi e quale sia, in generale e per tutti, la disciplina per le fattispecie precedenti il 26 aprile. A riguardo, esiste unicamente una circolare INPS, la n.13/2020, nella parte in cui chiarisce che, per le attività a specifico rischio professionale – è il caso, ad esempio, del personale sanitario delle strutture ospedaliere – sussisterebbe una presunzione semplice di origine, appunto, professionale…spiegazione peraltro piuttosto oscura; come pure esisterebbe una presunzione di tal tipo per tutte quelle attività che comportino stretto contatto con il pubblico, gli addetti al “front-office”.

Per tutti gli altri, la copertura assicurativa sarebbe riconosciuta, a condizione che la malattia sia stata contratta durante l’attività lavorativa, stabilendo l’onere della prova a carico dell’assicurato. In realtà, la situazione appare, ancora oggi, piuttosto confusa, anche perché la “circolare” dell’ente previdenziale non ha alcun effetto vincolante per la magistratura eventualmente investita di decidere circa una controversia fra datore e lavoratore, che invece dovrebbe attenersi alla normativa legale (e, nell’ambito della sua applicabilità, amministrativa) già in vigore al momento del verificarsi dell’epidemia o emanata successivamente.

E, sotto questo aspetto, la classificazione dell’infezione da Covid-19 come “infortunio” e non come semplice “malattia professionale”, operata dal decreto “cura Italia” è stata da molti ritenuta a dir poco improvvida, in quanto foriera di far insorgere nelle settimane e nei mesi che verranno una quantità elevatissima di liti giudiziarie, con cospicuo impiego di risorse, magari più utili ove impegnate altrove, vuoi per i soggetti coinvolti, vuoi per la macchina statale della giustizia che, com’è noto, in questo particolare frangente versa in condizioni, se possibili, ancor più precarie del solito.

Roberta Romeo

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