Un altro degli aspetti più controversi del sequestro di Aldo Moro, è dato dalle lettere che lo statista democristiano scrisse durante il periodo di detenzione. 86 lettere indirizzate ai vertici della Democrazia Cristiana, ai suoi familiari, agli organi di stampa e a Paolo VI che in quei giorni sedeva al soglio pontificio.
Alcune di quelle lettere furono effettivamente recapitate ma altre, fu cura dei brigatisti farle sparire finché non vennero alla luce a seguito del blitz nel covo di Via Monte Nevoso, a Milano, condotto dai Carabinieri del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pochi mesi dopo l’uccisione di Moro. Sempre nello stesso appartamento, nel 1990, durante lavori di ristrutturazione, ne furono trovate altre nascoste in un intercapedine. L’elemento che contraddistingue almeno le prime missive, è quello della volontà di Moro nell’invitare i vertici dello Stato ed i suoi colleghi di Partito, ad imbastire i termini di una trattativa, allo scopo di ottenere la sua liberazione.
Ci fu chi ritenne che le lettere dei primi giorni, siano state per Moro anche un’opportunità per inviare una sorta di “messaggi cifrati” ai suoi familiari ed agli investigatori, per far capire loro dove fosse detenuto. Una teoria che venne confermata anche dalla moglie di Moro nel corso del processo dove venne ascoltata in qualità di teste. Nora Moro disse che in più d’un’occasione, il marito le fece capire di trovarsi a Roma. Un esempio a suffragio dii questa ipotesi, quando in una lettera del 27 marzo 1978, Moro scrisse la frase: “Io sono qui in discreta salute”. Quella lettera però non venne mai recapitata alla famiglia dell’esponente democristiano.
“Naturalmente – scrive Moro – non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro”. L’attacco al PCI è rilevabile nel passaggio: “I comunisti non dovevano dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che mi ero tanto adoperato a costruire”.
In una lettera successiva, priva di uno specifico destinatario e recapitata tra il 9 ed il 10 aprile del 1978, Moro ipotizza che dietro la linea della fermezza, ci possa essere anche una pressione internazionale: “Vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana e tedesca?”.
Anche Giovanni Spadolini fu sostenitore della teoria della costrizione nella quale Moro scriveva. Questa ipotesi divenne talmente forte nell’opinione pubblica, al punto di influenzare menti anche molto raffinate. Ne è esempio Indro Montanelli che sferrò un durissimo attacco ad Aldo Moro, per quanto scritto: “Tutti a questo mondo hanno diritto alla paura. Ma un uomo di Stato (e lo Stato italiano era Moro) non può cercare d’indurre lo Stato ad una trattativa con dei terroristi che, oltre tutto, nel colpo di via Fani avevano lasciato sul selciato cinque cadaveri fra carabinieri e poliziotti”.
La teoria della costrizione decadde in sede processuale, quando emerse, al di là d’ogni ragionevole dubbio, che le Brigate Rosse, non minacciarono né torturarono Moro durante il periodo del sequestro.
Antonio Marino