In occasione del 40° anniversario del sequestro e dell’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e degli uomini della scorta, La Voce ripercorrerà settimanalmente, a partire da oggi e sino al 9 maggio, le fasi salienti del caso. Il reportage a puntate sarà curato dal nostro caporedattore, Antonio Marino. Un doveroso omaggio alla memoria dello statista, dei Carabinieri e degli Agenti di Polizia della sua scorta, per non dimenticare quei giorni drammatici della storia italiana.
La Voce
Sono trascorsi 40 anni da quella mattina del 16 marzo 1978, quando a Roma, in Via Mario Fani, raffiche di mitra e colpi di pistola posero uno spartiacque sulla storia italiana: era stato messo in atto l’attacco al cuore dello Stato. Ad esserne artefici, le Brigate Rosse che decisero di alzare l’asticella della lotta armata, sequestrando prima ed uccidendo poi, dopo 55 giorni, uno degli uomini-simbolo di quegli anni della Prima Repubblica: il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.
Per meglio capire come si contestualizzò quell’azione nella politica del Paese, occorre una doverosa premessa che per molti versi, trova analogie con i giorni attuali. Mi riferisco ovviamente alle fasi politiche e non ad atti di terrorismo che, fortunatamente, sembrano ormai appartenere al passato. Anche in quel periodo, le urne avevano consegnato due vincitori e come in quel periodo, anche oggi si discute per costituire il governo ed infine, come in quel periodo, il Paese era diviso.
Alle 08,45 del 16 marzo 1978, la scorta di Aldo Moro era pronta di fronte al portone del condominio di Via del Forte Trionfale al civico 79, dove il presidente della DC abitava. Moro lasciò la sua abitazione qualche minuto prima delle ore 9.00, accompagnato dal Maresciallo dei Carabinieri, Oreste Leonardi che lo affiancava ormai da diversi anni: il caposcorta. Il presidente salì a bordo della FIAT 130 di rappresentanza, incredibilmente non blindata nonostante il delicato ruolo ricoperto dal suo fruitore e a maggior ragione, in anni passati alla storia come gli ‘Anni di Piombo’. Moro sedette sul sedile posteriore ed insieme all’altra vettura di scorta, le auto si diressero verso Via della Camilluccia a velocità piuttosto elevata. Prima di giungere alla Camera, Moro non volle rinunciare all’abituale sosta nella chiesa di Santa Chiara per pregare. E quel giorno, di preghiere ce ne sarebbe stato davvero molto bisogno.
Assolto il suo dovere da cristiano, Moro si rimise in macchina alla volta di Montecitorio. Le auto, giunte in Via Mario Fani, Quartiere Trionfale, all’incrocio con Via Stresa, vennero bloccate da una FIAT 128 targata CD (Corpo Diplomatico) alla guida della quale si trovava il brigatista, Mario Moretti che insieme a Valerio Morucci, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore e Franco Bonisoli andava a comporre il commando terroristico che avrebbe sequestrato l’esponente democristiano. Pare che fossero 11 brigatisti in tutto ad essere presenti sul posto. Davanti alla vettura condotta da Moretti, c’era un’altra FIAT 128 con a bordo altri due brigatisti: Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Sull’altra carreggiata, era stata parcheggiata una terza FIAT 128 alla cui guida c’era la terrorista Barbara Balzerani, mentre una quarta auto, una FIAT 132 blu, condotta dal brigatista Bruno Seghetti, si trovava in Via Stresa, a breve distanza dall’incrocio con la Via Fani. Ancora oggi non c’è certezza sul fatto che si verificò un tamponamento a catena tra la 128, la 130 del presidente e l’Alfetta della scorta.
L’operazione “Fritz”, come l’avevano denominata i terroristi, aveva avuto inizio. Si concluderà 55 giorni dopo, il 9 maggio, con l’esecuzione della sentenza di morte per Aldo Moro. Una sentenza che forse, era già stata scritta ancor prima del suo sequestro e non necessariamente dalle mani delle Brigate Rosse, non necessariamente da mani italiane.
Antonio Marino