Calcio Serie A

Inter: Mario Corso, il “piede sinistro di Dio”

Un ricordo del campione scomparso ieri a 78 anni

Prima della “Milano da bere” degli anni Ottanta, esisteva una “Milano da raccontare” che cavalcò gli anni Sessanta; il calcio ricopriva un ruolo centrale e si arricchiva di connotati sociali, con la rivalità tra Milan ed Inter che traeva linfa quotidiana dalle vittorie di cui l’una come l’altra squadra si fregiavano regolarmente.

Se la Milano rossonera si spellava le mani ad ogni tocco di Gianni Rivera, non diversamente la “Grande Inter” di Angelo Moratti si nutriva della poesia in movimento di Mario Corso, che con quel suo sinistro fatato rappresentava probabilmente il vero antagonista tecnico del capitano rossonero; all’epoca, tuttavia, la stampa specializzata sembrava voler costruire un dualismo tra Rivera e Sandro Mazzola, che avrebbe raggiunto il proprio acme in occasione dei Mondiali del 1970.

Da quella spedizione, così come da tutte le altre grandi manifestazioni dedicate alle Nazionali, Corso fu invece sempre immancabilmente escluso. Non partì per la mortificante esperienza in Cile nel 1962, nonostante la doppietta realizzata in Israele durante le qualificazioni gli avesse assicurato per l’eternità l’appellativo di “piede sinistro di Dio”, coniato nella circostanza dall’allenatore ungherese Gyula Mandi. Complici anche i rapporti non idilliaci con Fabbri e Valcareggi, vide dal salotto di casa anche i Mondiali del 1966, gli Europei (poi vinti dall’Italia) del 1968 e la capitolazione azzurra in Messico contro il Brasile dopo la vittoria nella “partita del secolo” contro la Germania. Si spiegano così le sue sole 23 presenze in Nazionale.

Il discorso cambia e si tinge di trionfi quando dall’azzurro della Nazionale si transita al nerazzurro della sua Inter, con cui vinse e rivinse tutto tra il 1963 e il 1971; ciò, a dispetto dei reiterati contrasti con Helenio Herrera, tecnico della “Beneamata” fino al 1968. In quegli anni l’allenatore argentino proponeva regolarmente al presidente Moratti la cessione del fumantino fuoriclasse veronese, scontrandosi regolarmente con la ferrea opposizione del patron; solo nel 1973, quando Herrera tornò a guidare l’Inter dopo la parentesi nella Roma giallorossa, ottenne la cessione al Genoa di Corso, giunto ormai agli ultimi spiccioli di carriera.

E se, da un lato, non mancava chi rimproverava al genio nerazzurro un’eccessiva indolenza, dall’altra le sue giocate lo hanno consegnato alla storia; la punizione “a foglia morta” divenne il suo marchio di fabbrica, mentre il soprannome di “Mandrake” testimoniava la sua capacità di compiere magie in mezzo al campo che mandavano in visibilio il pubblico nerazzurro. Resta poi impressa con il fuoco la rete siglata contro l’Indipendiente nei tempi supplementari della Coppa Intercontinentale del 1964, che spedì l’Inter sul tetto del mondo.

Dopo il ritiro dal calcio giocato, le esperienze da allenatore non gratificarono Corso nella stessa misura; all’inizio degli anni Ottanta guidò il Lecce e il Catanzaro, prima di subentrare per qualche mese ad Ilario Castagner sulla panchina della sua amata Inter nella stagione 1985/1986. Poi Mantova e Barletta; l’ultima esperienza risale al 1992, sulla panchina del Verona, città in cui era nato nel 1941, quasi a voler chiudere un cerchio.

Mario Corso si è spento a Milano nella mattinata di ieri, 20 giugno; nello stesso giorno, esattamente 63 anni prima, poco più che sedicenne aveva firmato il proprio trasferimento all’Inter. Una data evidentemente non casuale per via di quelle simmetrie con cui ogni tanto i numeri e il tempo sembrano divertirsi a trovare una coincidenza tra l’inizio e la fine, tra il giorno in cui la stella di “Mariolino” iniziò ad essere luminescente e quello in cui si è spenta, continuando però a brillare nella storia della più grande Inter di sempre.

Gigi Bria

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Gigi Bria

Le cose migliori arrivano per caso. Per caso, ormai dieci anni fa, iniziai ad insegnare diritto ed economia politica in una scuola superiore di Milano. Sempre per caso, qualche anno fa, mi fu proposto di scrivere. Ho visto "La Voce" quando era ancora un embrione; ora è il giovane figlio di cui mi prendo cura ogni giorno parlando di sport e dirigendone la relativa redazione. Seguo il mondo del calcio, confidando di riuscire a non far mai trasparire la mia pur blanda fede calcistica.
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