Basket

La morte di Kobe Bryant: il senso di vuoto di una generazione di amanti del Basket

Il ricordo della stella NBA tragicamente scomparsa

Chi scrive, è uno dei tanti. Uno dei tanti che ha inizialmente accarezzato il basket grazie a Magic. E che poi ne è rimasto letteralmente drogato con Michael. E che successivamente ha assecondato con rassegnazione la propria dipendenza attraverso Kobe. In comune, per tutti e tre, l’assoluta superfluità del cognome. E un senso di trasversalità difficile da ritrovare nello sport.

Magic diede la spallata iniziale, con una completezza di gioco rivoluzionaria per la sua epoca, ma ancora di più con quel suo inimitabile sorriso che nemmeno la notizia di aver contratto l’HIV – malattia da cui ad inizio anni Novanta, in una collettività ancora poco alfabetizzata sull’argomento, era impossibile disgiungere un giudizio etico – riuscì a spegnere. Poi venne Michael, che, prima e dopo l’assassinio di suo padre, prima e dopo l’intermezzo dedicato al baseball, fu aria e fu terra, fu al di sopra e fu al di là; e che nel frattempo fu anche il poster sull’armadio di un bambino che già di suo respirava basket.

Figlio di Joe, giunto in Italia dopo la carriera NBA, Kobe inizialmente era solo il “nanetto” che durante gli intervalli delle partite del padre prendeva il pallone e trotterellava sul parquet, infilando un canestro di tanto in tanto. Perché all’inizio, a Rieti come a Reggio Emilia, lui era solo il figlio di Joe. Poi, l’high-school, il salto nell’NBA senza frequentare il college, la chiamata di Charlotte e l’insistenza di Jerry West per portarlo subito nella Los Angeles gialloviola. E il dubbio, di fronte al più giovane esordiente tra i professionisti, se ci si trovasse al cospetto di un precursore o di un presuntuoso.

La “benedizione” arriva molto presto proprio da Michael, con l’idolo di carta che diventa il maestro in carne ed ossa. L’ispirazione diventa ossessione, l’imitazione diventa duplicazione. Per qualcuno, forse, addirittura il perfezionamento di ciò che a molti appariva già perfetto. Kobe è l’erede designato, dal predecessore come già lo era stato da se stesso. Sono vent’anni di numeri, punti, vittorie, titoli; e record, per loro natura fatti per essere battuti, come avvenuto non più di qualche giorno fa da Lebron, altro esponente di quanti non necessitano del prolungamento di un cognome, che ha scalzato Kobe dal terzo posto dei marcatori NBA di tutti i tempi.

La tragedia della morte resta il mistero più insondabile dell’intera vicenda umana. Quella di Kobe – cui vanno ad aggiungersi quelle di una delle sue quattro figlie e di altre sette persone, tutte in volo sull’elicottero di proprietà dell’ex cestista, precipitato sulle colline di Los Angeles – arriva improvvisa, raggelante. L’incredulità impregna il mondo del basket e dello sport in generale, di oggi e di ieri, al di qua e al di là dell’oceano. La notizia della morte di Kobe ha una portata talmente potente, da riuscire persino ad intrufolarsi e a ritagliarsi uno spazio all’interno della giornata dedicata alla memoria dell’Olocausto; e il fatto che la morte di un giovane uomo non risulti oscurata dal ricordo del più grande dramma della storia dell’umanità, la dice lunga su cosa Kobe abbia rappresentato per quasi tutto il primo ventennio degli anni Duemila.

Quando decise di ascoltare il proprio corpo, l’ultimo anno NBA di Kobe si trasformò nella celebrazione itinerante di uno dei più grandi esponenti di sempre nella disciplina; e la misura del rispetto e della considerazione nei confronti di un atleta trova il suo marchio più autentico nel tributo che viene a lui riconosciuto dagli avversari. Ma, se l’ultimo saluto al Kobe giocatore è stato unto da tutti i crismi, quello al Kobe uomo deve essere ancora elaborato.

Nel frattempo, l’NBA prova a scuotersi, si impone di andare avanti; e così, nelle partite della prima notte senza Kobe, le squadre si fermano per due volte, rispettivamente per 24 e per 8 secondi, come i due numeri di maglia indossati durante la carriera dal ragazzo di Philadelphia. I suoi colleghi, allo stesso modo, pur trafitti dallo smarrimento vivono nel suo ricordo. Trae Young degli Atlanta Hawks sceglie di vestire la casacca numero 8 anziché la 11 e segna 45 punti; Russell Westbrook, losangelino di Long Beach in cui Kobe rivedeva la sua stessa cattiveria agonistica, si commuove durante il minuto di silenzio prima di realizzare 32 punti nella sconfitta dei suoi Rockets contro i Nuggets.

E anche chi scrive, quell’uno dei tanti che nel basket aveva trovato qualcosa di eccezionale, che in Kobe aveva visto l’anello di congiunzione tra il mondo di Magic e Michael da un lato e di Lebron dall’altro, anche chi scrive non può che unirsi al cordoglio di chi ha perso un collega, un amico o un idolo, con la certezza limpida e tetra ad un tempo che la sua vita di amante dello sport da oggi sia un po’ più vuota.

Gigi Bria 

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Gigi Bria

Le cose migliori arrivano per caso. Per caso, ormai dieci anni fa, iniziai ad insegnare diritto ed economia politica in una scuola superiore di Milano. Sempre per caso, qualche anno fa, mi fu proposto di scrivere. Ho visto "La Voce" quando era ancora un embrione; ora è il giovane figlio di cui mi prendo cura ogni giorno parlando di sport e dirigendone la relativa redazione. Seguo il mondo del calcio, confidando di riuscire a non far mai trasparire la mia pur blanda fede calcistica.
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