Storia

Dedicare una vita all’Italia, anzi dedicarne tante: i Cairoli

Il generoso sacrificio della famiglia

Nell’epopea risorgimentale vi furono molti patrioti che si dedicarono alla causa italiana, spesso col sacrificio della vita, sui campi di battaglia o sulle forche austriache, borboniche o papaline; vi è però il caso in cui fu un’intera famiglia che si diede al sacrificio disinteressato per l’Italia, una famiglia che alla fine del percorso che portò all’unità ed all’indipendenza vide la perdita di ben più di uno dei suoi componenti.

I fratelli Cairoli erano figli di Carlo, medico e docente di chirurgia presso l’Università di Pavia, città di cui fu podestà dopo la ritirata degli austriaci nel 1848; morì nel 1849.

Primogenito era Benedetto, nato nel 1825, che prese parte alle Cinque Giornate di Milano e partecipò alle prime due Guerre d’Indipendenza (1848 e 1859), nonché alla spedizione di Garibaldi durante la quale venne ferito; ad Unità avvenuta fu deputato e successivamente Presidente del Consiglio per due volte. Era presente quando l’attentatore Passannante tentò di accoltellare re Umberto I nel novembre del 1878: Benedetto afferrò l’attentatore prendendosi una coltellata ad una coscia, salvando così la vita al re. Morì nel 1889 mentre era ospite di Umberto I presso la reggia di Capodimonte.

Ernesto nacque nel 1833; da ragazzo dovette lasciare Pavia essendo sospettato dalle autorità di polizia austriache, e trovò rifugio nel Regno di Sardegna a Genova. Combattendo nei Cacciatori delle Alpi, la formazione garibaldina che prese parte alla Seconda Guerra di Indipendenza inquadrata nel Regio Esercito piemontese, morì nella battaglia di Varese (maggio 1859) all’età di ventisei anni.

Luigi era della classe 1838 e anch’egli combatté tra le fila garibaldine durante la spedizione per la liberazione del meridione nel 1860, durante la quale morì dopo essersi ammalato di tifo.

Fu nel 1840 che vide la luce Enrico, anch’egli spinto dal suo amor di Patria a seguire i fratelli maggiori arruolandosi nelle schiere garibaldine, prima con i Cacciatori delle Alpi nella Seconda Guerra di Indipendenza e poi durante la spedizione dei Mille, militando nella compagnia comandata dal fratello maggiore Benedetto. Partecipò alla battaglia di Calatafimi, il 15 maggio del 1860, e fu ferito gravemente quando l’esercito garibaldino entrò a Palermo. Fece quindi ritorno a casa e fortunatamente guarì dalle ferite riportate, partecipando successivamente alla spedizione di Garibaldi per la liberazione di Roma del 1862, iniziativa che fu fermata dall’Esercito Italiano sull’Aspromonte (è l’episodio in cui Garibaldi si procurò la famosa ferita alla gamba), dato che Roma era protetta da un copro francese ed il Governo italiano era contrario all’impresa per ragioni diplomatiche; qui Enrico fu fermato ed arrestato, per poi essere liberato dietro amnistia insieme ad altri garibaldini. Partecipò alla Terza Guerra di Indipendenza nel 1866, nonché alla spedizione per la liberazione di Roma nel 1867, quella che Garibaldi decise di intraprendere di propria iniziativa ancora contro la volontà del Governo italiano, e che si concluse con la sconfitta garibaldina a Mentana il 3 novembre ad opera delle truppe pontificie (in gran parte composte da mercenari stranieri): Enrico morì combattendo contro gli zuavi del papa nello scontro di Villa Glori il 23 ottobre, lo stesso giorno in cui venne ferito il fratello Giovanni, tra le cui braccia spirò.

Giovanni era l’ultimogenito, nato nel 1842; fu costretto a lasciare Pavia dopo un violento scontro verbale con un ufficiale austriaco, rifugiandosi a Torino dove frequentò la regia Accademia Militare, uscendone come ufficiale. Nello scontro del 23 ottobre del 1867 a Villa Glori vide morire suo fratello Enrico, venne ferito, catturato e successivamente rilasciato; ma le conseguenze delle gravi ferite che si era procurato combattendo lo portarono alla morte nel settembre del 1869. Carducci gli dedicò i versi de “In morte di Giovanni Cairoli”.

Ed in ultimo lei, la madre di questi cinque fratelli che si spesero così generosamente per la libertà d’Italia: Adelaide Bono Cairoli. Era nata a Milano nel 1806 ed aveva sposato Carlo Cairoli nel 1824 quando era appena diciottenne (lui era maggiore di lei di ben 28 anni); ne rimase vedova nel 1849. Era una donna colta, che ospitava un salotto letterario e che finanziò giornali patriottici. E fu proprio all’amor di patria che indirizzò l’educazione dei suoi figli (ebbe anche tre femmine: Rachele, Emilia e Carolina), infondendo loro quel fervore patriottico che li portò a rischiare la vita e, come abbiamo visto, anche a perderla per l’Italia e la causa della sua libertà dallo straniero. Era a Quarto nel 1860 per salutare i suoi figli in partenza per la Sicilia nella spedizione dei Mille, e man mano che dovette patire il dolore per le successive perdite di quattro dei suoi cinque figli maschi caduti per la causa, la sua fama presso gli italiani crebbe fino ad essere considerata una sorta di “madre della Patria”. Morì il 27 marzo del 1871.

Abbiamo quindi conosciuto le vicende di questa generosa famiglia di patrioti pavesi, che partendo dal padre divenuto primo cittadino dopo le insurrezioni antiaustriache del 1848, vide ben quattro dei cinque fratelli sacrificare la vita per l’Italia, salvandosi solo colui che pur avendo partecipato a numerose imprese belliche, rimase in vita ed arrivò a diventare Presidente del Consiglio di quell’Italia libera ed una, per la quale si era battuto e i suoi quattro fratelli avevano donato la vita. E poi lei, la generosa madre che dovette subire per ben quattro volte il più atroce dolore che possa colpire un genitore, colei che aveva trasmesso ai propri figli i più alti valori dell’amor di patria e che rifiutò qualunque onorificenza, ritenendo che la sua famiglia avesse semplicemente compiuto un dovere, e perciò non le fosse dovuta alcuna forma di riconoscimento.

Per cui, quando passeggiando per le nostre città ci ritroviamo in una delle tante vie e piazze Cairoli, dedichiamo un pensiero a chi tanto diede alla causa italiana, e rivolgiamo un grazie a chi a prezzo di un così grande sacrificio contribuì a che noi oggi potessimo vivere in un’Italia libera ed una.

Marco Ammendola

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Antonio Marino

Cinquantunenne ma con lo spirito da eterno ragazzo. Adoro la compagnia degli amici con la 'A' maiuscola, la buona tavola e le buone birre. Appassionato di politica ma quella con la 'P' maiuscola, sposato più che felicemente. Difetti: sono pignolo. Pregi: sono pignolo

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