Storia

Giovanni Falcone: il grande magistrato che scoprì come piegare la mafia

Un ricordo a 28 anni dalla strage di Capaci

Tutti noi sentendo nominare Giovanni Falcone sappiamo che questo magistrato italiano, famoso in tutto il mondo per essere stato uno dei più importanti magistrati antimafia, ha avuto dei meriti straordinari nella lotta a Cosa Nostra, e sappiamo che ha conseguito risultati eccezionali durante tutta una vita dedicata al servizio dello Stato e delle istituzioni. Ma forse non tutti sanno cosa fece nel dettaglio e quali furono nello specifico i risultati che ottenne, tanto da essere poi passato alla storia come colui che rivoluzionò la lotta a Cosa Nostra. Vediamo allora il percorso che lo porterà a diventare un giudice eroe dell’antimafia.

Giovanni Falcone era nato a Palermo il 18 maggio del 1939, da Arturo e Luisa Bentivegna. E’ in famiglia che Giovanni comincia a formarsi con i valori ai quali dedicherà tutta la vita, sentendo i genitori narragli le vicende di uno zio ufficiale dei bersaglieri caduto sul Carso, e di un altro zio pilota di aereo morto in combattimento nella stessa guerra.

“Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana” (Giovanni Falcone)

Compiuti gli studi classici conseguendo la maturità col massimo dei voti, entra nella Marina, ma la vita militare non gli si addice, sicché si iscrive alla facoltà di giurisprudenza appassionandosi agli studi di legge, laureandosi nel 1961 con lode. Nel 1964 sostiene il concorso per entrare in magistratura (lo stesso anno in cui sposa la sua prima moglie Rita Bonnici, dalla quale divorzierà nel 1979) e nel 1965 ottiene il primo incarico divenendo pretore a Lentini; passa poi a Trapani nel 1967. E’ qui che Falcone comincia ad occuparsi di lotta alla mafia, vedendo però cadere il processo contro il boss Mariano Licari a causa della legittima suspicione, ossia la possibilità per un imputato di chiedere la sostituzione di una corte ritenuta non al di sopra delle parti. In questo frangente la giustizia fu sconfitta, ma l’episodio permise a Falcone di gettare le basi di quello che diverrà il nuovo modo di portare avanti la lotta alla mafia.

Nel 1978 il nostro magistrato viene trasferito a Palermo, divenendo stretto collaboratore del giudice Rocco Chinnici; ora Falcone entra nel vivo di quella lotta alla mafia che non si limita, come nel passato, a contrastarne la componente “militare”, ma impernia le indagini sulle attività economico-finanziarie dell’organizzazione. E proprio questo fu uno dei grandi meriti di Falcone, l’aver dato vita ad un nuovo metodo investigativo che estendeva l’attività di indagine al campo patrimoniale dei boss, riuscendo a ricostruire i movimenti bancari sospetti, ottenendo quelle prove che spesso erano mancate nei vecchi processi e che ne avevano decretato il fallimento.

“Gli uomini passano, le idee restano, e continuano a camminare sulle gambe di altri uomini” (Giovanni Falcone)

Arriviamo al 1980, l’anno in cui Falcone fu messo sotto scorta perché l’efficacia del suo metodo investigativo lo aveva fatto finire nel mirino dell’organizzazione mafiosa (lo stesso anno comincerà il rapporto con Francesca Morvillo, che diverrà la sua seconda moglie). La reazione della mafia non tarda ad arrivare: il 29 luglio del 1983 un’autobomba uccide il giudice Rocco Chinnici con tutta la scorta. Sarà lui ora, Giovanni Falcone, ad ereditare il ruolo di guida nella lotta antimafia, sarà a lui che Palermo, la Sicilia e l’Italia tutta affideranno le loro speranze di giustizia. Difatti Falcone entra a far parte del famoso pool antimafia, con l’appoggio del successore di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto. La creazione del pool viene decisa perché grazie a Falcone si era capito che il fenomeno mafia era estremamente complesso, e tale complessità esigeva che i magistrati che sulla mafia indagavano passassero dal lavoro in autonomia a quello di squadra, facendo convogliare in unico contenitore le informazioni ricavate, al fine di comprendere la vera natura e la reale struttura dell’organizzazione. E proprio questo fu un altro straordinario merito di Falcone, ossia l’aver capito che la mafia non era un insieme di bande slegate ed operanti sul territorio in maniera autonoma, ma una complessa struttura unitaria, fortemente gerarchizzata e gestita da un vertice unico.

E risultati arriveranno presto, con l’arresto nel 1984 per associazione mafiosa di Vito Ciancimino (ex sindaco di Palermo ed esponente di spicco della Democrazia Cristiana), e dei due cugini Nino ed Ignazio Slavo, imprenditori legati a Cosa Nostra, anch’essi esponenti della DC siciliana. Ma sarà nel 1986 che Falcone otterrà il più straordinario risultato che mai si fosse avuto nella lotta contro la mafia, quando il 10 febbraio avrà inizio il maxiprocesso a Cosa Nostra: ventidue mesi di udienze a 475 imputati, all’interno di un’aula bunker appositamente costruita, processo che si concluderà con la condanna a 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. La maggior parte delle prove si avranno grazie al pentito Tommaso Buscetta, e tra i giudici vi sarà l’attuale Presidente del Senato Pietro Grasso.

“Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola” (Giovanni Falcone)

Naturalmente la reazione della mafia non si fa attendere ed il 20 giugno del 1989 una valigia contenente della dinamite posta nei pressi della villa di Falcone viene casualmente rinvenuta da un agente della scorta. Ma il magistrato va avanti e diventa Procuratore aggiunto di Palermo, veste sotto la quale nel gennaio del 1990 riesce a far arrestare 14 trafficanti di eroina per conto dei clan mafiosi Gambino ed Inzerrillo. Nel 1991 poi, diviene Direttore degli Affari Penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia retto da Claudio Martelli, collaborando alla creazione della Direzione Nazionale Antimafia (nota come Superprocura), e dando vita al regime di carcere duro per i boss mafiosi detenuti (il famoso 41 bis).

A questo punto l’eroico magistrato si sta avvicinando al più pericoloso dei territori, quello delle connivenze tra mafia e politica; ora Falcone sa che la sua vita è in pericolo, e considera la sua morte per mano mafiosa come un qualcosa di inevitabile, solo una questione di tempo.

Il 23 maggio del 1992 Giovanni Falcone e sua moglie Francesca atterrano all’aeroporto di Palermo di ritorno da Roma e salgono su un’auto che con la scorta fa parte di un convoglio di tre; ma allo svincolo all’altezza di Capaci, 400 chili di esplosivo polverizzano un tratto di autostrada. Vengono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti della scorta.

Il 19 luglio dello stesso anno sarà poi Paolo Borsellino, collega ed amico di Falcone, a pagare il conto con Cosa Nostra; e a questo punto potrebbe sembrare che lo Stato e le istituzioni siano così state sconfitte. Ma la partita non si concluderà così. Falcone lasciò in eredità il suo rivoluzionario metodo di indagine, che fornirà allo Stato quegli strumenti grazie ai quali verranno conseguiti altri risultati straordinari, che daranno a Cosa Nostra dei colpi durissimi, portando all’arresto di gran parte dei boss dell’organizzazione. E a noi comuni cittadini Giovanni Falcone lasciò l’esempio di un uomo che considerava la dedizione al proprio paese, allo Stato ed alle sue istituzioni il supremo dei doveri, un compito sacro per il quale sacrificare tutto, anche la vita.

“La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni” (Giovanni Falcone).

Marco Ammendola

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Marco Amendola

Anche se faccio tutt'altro lavoro, sono da sempre appassionato di storia, un romanzo talmente avvincente che non necessita di un finale a sorpresa

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