Cronaca

Una sera tra gli “invisibili” di Milano. Un gruppo di volontari fa cenare decine di clochard

Si stima che a Milano si trovino circa 2.600 senza tetto: persone che per mille motivi diversi sono finite a vivere per strada. Tra loro ci sono stranieri, giunti in Italia sperando in un futuro migliore di quello che poteva riservare loro il Paese d’origine; anche molti italiani e molti giovani. Ognuno ha la propria storia, il proprio disagio. Li vediamo chiedere qualche moneta ai passanti, dormire tra i cartoni insieme alle loro poche cose. Non solo nelle periferie ma anche nelle lussuose vie del Centro.

In questi giorni, quando le strade attorno Piazza Duomo, Corso Vittorio Emanuele e la Galleria sono addobbate a festa, illuminate dalle luci natalizie, questo esercito di “invisibili” è la risposta a quel benessere vero o presunto che molti ostentano, arrivando finanche ad ignorarli. Eppure basterebbe così poco per sottrarli all’indifferenza.

Le istituzioni pubbliche e private cercano di provvedere alle loro esigenze, mettendo a disposizione dormitori, mense gestite per lo più dalla Chiesa ed altre azioni caritatevoli quanto encomiabili. Molto viene fatto ma moltissimo resta da fare.

E’ il tardo pomeriggio di venerdì scorso, quando mi arriva un messaggio sul cellulare. Sto chiudendo la prima pagina per l’indomani mattina e generalmente, in quei momenti non rispondo a nessuno, non voglio essere distratto. Stavolta però, qualcosa mi spinge a voler leggere subito chi è che mi sta scrivendo: è Matteo, un amico conosciuto in un momento non facile per il mio privato. Insieme al suo socio, Fabio, gestisce la ‘Rescue Assistance ONLUS’, un’organizzazione per il trasporto di persone con difficoltà di deambulazione.

Matteo mi informa che insieme ad altri amici, quella sera distribuirà cibo ai senzatetto. Mi spiega infatti che Rino, un rosticciere con attività in Via Anguissola, ha preparato qualcosa come 48 polli arrosto, oltre bottigliette d’acqua, pane, brioches e panettoni da destinare ai clochard. Mi chiede se può mandarmi delle foto per poter realizzare un articolo. “Certo”, rispondo io ma non sono convinto che possa bastare scrivere la cronaca di un atto di carità cristiana, oltre che di civiltà, per potermi guardare allo specchio e potermi dire d’aver fatto tutto quello che potevo fare. Cerco quindi di capire se possono esserci le condizioni per uscire con loro, rendermi utile e vivere questa esperienza in prima persona per meglio consegnarla ai lettori.

Detto, fatto: tempo venti minuti e Matteo arriva con l’automezzo della sua ONLUS, carico di tutti i viveri. Con lui ci sono Antonio e Gisella, una coppia di marito e moglie, amici del rosticciere e di Matteo: basta guardarli negli occhi per capire che il far del bene è scritto nel loro codice genetico.

Durante il tragitto che ci porta in Centro, facciamo un po’ di conversazione e le loro parole confermano che le mie sensazioni erano esatte. Antonio e Gisella, così come Matteo, sono persone venute al mondo con la precisa missione di fare quanto loro possibile per aiutare gli “ultimi”. Questo è indiscutibile.

Giungiamo in Piazza Diaz e cominciamo il nostro giro. E’ sufficiente localizzare un giaciglio di fortuna per capire che lì c’è chi possiamo aiutare. E quei giacigli sono tanti, troppi, più di quanto la società moderna possa permettere. Man mano che distribuiamo i viveri, sento un moto di commozione mista a rabbia che mi divora dall’interno: la freddezza del cronista è messa a dura prova. Il mio stato d’animo è dato dal ribellarmi a quello che sto vedendo: non è giusto per nessun essere umano finire così! Cerco di non tradire emozione, ostentando un sorriso da regalare ai clochard, nella speranza di contribuire a scaldare il loro cuore.

Antonio intanto è un fiume in piena: con disarmante disinvoltura avvicina queste persone, le saluta cordialmente e propone loro il cibo che stiamo portando. Con i clochard scambia anche quattro chiacchiere: “Come ti chiami”, “Da dove vieni”, chiede loro. E loro, gli “invisibili” (forse per gli altri ma certo non per noi), rispondono tranquillamente e spesso sorridendo.

Nei loro occhi si può leggere la gratitudine: non tanto per il pollo offerto ma per il fatto che finalmente c’è chi li tratta da esseri umani. Alcuni di loro hanno una gran voglia di parlare: è un modo per sentirsi vivi tra i vivi e non sopravviventi tra i viventi. Di quasi nessuno riusciamo a conoscere granché delle vicende che l’hanno condotto sul marciapiede; del resto, non è questo lo scopo di essere lì… la missione è un’altra e nettamente più chiara: fare in modo che possano mangiare e strapparli alla loro condizione, almeno per pochi minuti.

Credevo di star fuori tutta la sera e invece non abbiamo impiegato più di un’ora e mezza per terminare il carico di vivande. Già… purtroppo non abbiamo impiegato più di un’ora e mezza. Tristemente infatti, non abbiamo dovuto far fatica a trovare chi aveva bisogno e men che meno, convincerlo ad accettare. L’uso dei termini “purtroppo” e “tristemente” è quanto mai obbligatorio: è l’indicatore di un disagio sociale molto più diffuso di quel che si possa credere. Non tanto per il numero di clochard, quanto per il fatto che queste persone sono spesso davvero “invisibili”; “invisibili” ma desiderosi di stringere la mano che gli viene tesa. Venerdì sera, con Matteo, Antonio, Gisella e a distanza, il rosticciere Rino, abbiamo teso loro le nostre mani e lo faremo ancora.

Cosa ricordo di questa esperienza, oltre quello che avete letto? Ricordo che mi batteva il cuore… sì, mi batteva il cuore.

Antonio Marino

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Antonio Marino

Cinquantunenne ma con lo spirito da eterno ragazzo. Adoro la compagnia degli amici con la 'A' maiuscola, la buona tavola e le buone birre. Appassionato di politica ma quella con la 'P' maiuscola, sposato più che felicemente. Difetti: sono pignolo. Pregi: sono pignolo
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