Affari legali

AFFARI LEGALI. Il canone RAI: questioni vecchie e nuove

Il fatto che si trattasse di una tassa è stato a più riprese ribadito in molteplici sentenze italiane ed europee

Con l’entrata in vigore della legge di stabilità per il 2016 sono cambiate le modalità di pagamento del cosiddetto “Canone RAI”.

Quello versato fino al 2015 in un’unica rata entro il 31 gennaio di ogni anno o al massimo entro la fine di febbraio, con l’aggiunta di una mora, è in realtà una tassa dovuta per il possesso di un apparecchio idoneo a ricevere trasmissioni televisive, o almeno così viene definito dall’art. 1, comma 1°, del Regio Decreto Legge 21 febbraio 1938 n° 246, il quale, nella formulazione letterale, parla di “radioaudizioni”, poiché all’epoca della sua pubblicazione le trasmissioni TV erano ancora un lontano miraggio.

Il fatto che si trattasse di una tassa è stato poi a più riprese ribadito in molteplici sentenze italiane ed europee, a dispetto della denominazione alla stessa attribuita sia dai media, sia dalla stessa modulistica fornita per il versamento di questo tributo. In proposito, si segnalano infatti sia una sentenza della Corte Costituzionale, la n° 284/2002, nella parte in cui ha affermato che il “canone RAI” “non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’Ente (…) che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, ma si tratta di una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo”. Ed ancora, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella sentenza 31 marzo 2009, ha sostenuto che il “canone televisivo” è “una imposta dovuta in ragione del possesso di un apparecchio atto a ricevere qualsiasi programma televisivo”, specificando poi che “il canone Rai costituisce in effetti un’imposta destinata al finanziamento del servizio pubblico della radio-telediffusione. (…) Un sistema che permettesse di vedere soltanto i canali privati, senza pagare il canone televisivo, ammesso che possa essere tecnicamente realizzabile, equivarrebbe a denudare l’imposta della sua stessa natura, ossia contribuire a un servizio rivolto alla comunità e non,  invece, un prezzo da corrispondere in cambio della ricezione di una particolare rete televisiva”.

Dalle considerazioni appena fatte, scaturisce un’ovvia conseguenza, peraltro confermata anche dalla nostra Corte di Cassazione con la pronuncia n. 1922 del febbraio 2016: non è possibile ottenere l’esenzione dal pagamento del “canone di abbonamento alla televisione” (l’uso delle virgolette è, ancora una volta, voluto poiché di canone di abbonamento, in realtà, non si tratta), semplicemente bloccando la ricezione dei canali RAI da parte del proprio apparecchio TV.

Resta tuttavia da capire, a questo punto, per quale ragione quello che unanimemente è considerato un tributo dovuto allo Stato debba essere riscosso e soprattutto incamerato da un soggetto di diritto privato – ancorché ad azionariato interamente pubblico – che, da un lato, non è ormai da tempo monopolista nella fornitura del servizio di radio-telediffusione di informazioni, ed ha perso quindi la sua connotazione di fornitore necessario ed unico di un servizio di pubblica utilità e, dall’altro, ha fatto nel tempo crescente ricorso, al fine di finanziare i propri costi, alle classiche fonti utilizzate dai suoi concorrenti privati, e cioè all’inserimento di spot pubblicitari nel corso dei programmi, nonché alle sponsorizzazioni di intere trasmissioni, sempre da parte di soggetti imprenditoriali esterni.

Nel prossimo articolo si disquisirà circa le problematiche sorte, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, in seguito all’entrata in vigore delle nuove modalità di pagamento di questa famosa tassa mascherata da canone. Diverso il nome, ma identica la sostanza.

Roberta Romeo

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