Affari legali

AFFARI LEGALI. Il criterio del tenore di vita è ormai un pallido ricordo?

Si esprime ancora la Cassazione

L’anno scorso abbiamo parlato in modo approfondito della nota sentenza relativa alla diatriba dell’ex ministro Grilli, concernente la questione dell’esclusione del tenore di vita in costanza di matrimonio dal novero dei criteri adottati per il calcolo del cosiddetto assegno divorzile.

A tal proposito, pur sottolineando i passi compiuti dalla giurisprudenza per sganciarsi dai soliti retaggi culturali che di fatto andavano a sempre e comunque a discapito del sesso maschile, si sono espresse non poche perplessità sul fatto che certi concetti trovassero poi concreta applicazione nelle aule dei nostri tribunali.

E’ poi intervenuta nel luglio 2018 la sentenza n.18287, emessa dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, la quale ha fatto maggior chiarezza stabilendo che nel quantificare l’ammontare di detto assegno si dovesse tener conto delle rispettive condizioni economiche, dando rilievo rilievo al contributo concretamente apportato dall’e x coniuge al patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio , alle potenzialità reddituali e all’età. I parametri individuati dalla Suprema Corte affondavano le proprie radici nei ” principi costituzional i di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo”.

Secondo la pronuncia in questione, al fine di quantificare la somma da versare all’ex coniuge in caso di divorzio, occorreva quindi valutare se il contributo fornito alla conduzione della vita familiare costituisse il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e responsabili, che potessero oggettivamente incidere anche profondamente sul profilo economico patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell’unione matrimoniale.

Si era altresì disquisito sulla necessità di attribuire all’assegno divorzile una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa, valutando se il richiedente avesse di fatto contribuito alla crescita sociale ed economica del partner, come nell’ipotesi in cui avesse per esempio acconsentito a trasferirsi in un’altra città, rinunciando ad un impiego ed allontanandosi dalla propria famiglia d’origine, pur di dare l’opportunità all’altro di fare carriera.

Orbene, con una recentissima sentenza gli Ermellini sono tornati sull’argomento e hanno preso a quanto pare una posizione ancor più netta, rilevando che l’unico, reale criterio da seguire nel decidere se riconoscere o meno il diritto a percepire il tanto declamato assegno, sia quello dell’indipendenza economica.

In poche parole, l’assegno di divorzio deve assicurare un’esistenza dignitosa all’ex coniuge che non disponga di redditi propri e ragionevolmente non possa neanche procurarseli, non può essere invece un mezzo per equilibrare il divario economico tra le parti. In buona sostanza, poco importa se uno dei due sia benestante e l’altro no: se il soggetto economicamente più debole è autosufficiente o possiede i requisiti per esserlo, non ha più alcun diritto a mantenere il medesimo tenore di vita che aveva durante il matrimonio.

O almeno così dovrebbe essere, con tutti i se e i ma del caso.

Roberta Romeo

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