Affari legali

AFFARI LEGALI. L’esternalizzazione della manodopera in forma di appalto

Quali sono i limiti e quali gli abusi

E’ noto ormai da tempo che le aziende, nella continua ricerca di soluzioni volte tanto a ridurre i costi fissi, quanto ad adattare la propria struttura ad esigenze di mercato continuamente mutevoli, vadano sperimentando nuovi modelli di organizzazione del lavoro. L’apertura dei mercati a paesi un tempo considerati lontani e che, spesso, profittano di legislazioni interne ancora oggi assai meno avanzate in materia di tutela del lavoro, ha reso questa esigenza addirittura vitale, in una situazione di concorrenza feroce e, non di rado, praticata con mezzi a dir poco spregiudicati.

Uno dei mezzi più di frequente utilizzati per raggiungere i due scopi cui si è appena fatto cenno (riduzione dei costi fissi e adattamento strutturale alle variabili esigenze del mercato) è quello del contratto di appalto ed, in special modo, dell’appalto di servizi. Senonché, il Legislatore italiano ha sempre considerato con sospetto il ricorso a detta forma negoziale, soprattutto per il caso di appalti che implichino un massiccio impiego di manodopera a fronte di un uso relativamente modesto di altre risorse come macchinari, attrezzature varie; questo perché simili tipologie contrattuali, denominate appalti “labour intensive”, spesso costituiscono vere e proprie forme di elusione della normativa in materia di somministrazione di manodopera, ancorché nella sua attuale, meno restrittiva versione, derivante dal D. Lgs. n° 276/2003.

Il risultato di tale prassi è quello di produrre un’ eccessiva dispersione di responsabilità in diversi aspetti del rapporto di lavoro (in primo luogo, quello della sicurezza) e di rendere possibili forme surrettizie di disparità di trattamento fra dipendenti del committente da un lato, e dell’appaltatore, dall’altro, oltre che di rendere più difficoltosa in concreto l’imputazione del rapporto e dei correlati obblighi all’uno o all’altro soggetto.

Ma qual è il confine fra uso legittimo ed illegittimo del contratto di appalto? Va innanzi tutto individuata la nozione di appalto “genuino”, quale ricavabile dal combinato disposto degli artt. 1655 c.c. e 29, comma 1, D. Lgs. 10 settembre 2003. La prima delle due disposizioni definisce l’appalto come che “il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”, mentre la seconda specifica che “il contratto d’appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.”

Dalla lettura coordinata delle due norme, è possibile fissare i criteri distintivi dell’appalto definito “genuino” (lecito), in opposizione a quello “fittizio” (illecito), che sono: l’organizzazione di mezzi, in relazione alle esigenze dell’opera posta a capo dell’appaltatore; l’esercizio da parte dell’appaltatore stesso del potere organizzativo e direttivo verso i lavoratori utilizzati nell’appalto; l’assunzione, sempre in capo a quest’ultimo, del rischio d’impresa.

Sul punto, il Ministero del Lavoro ha affermato che l’appalto abbia per oggetto un “fare”, poiché l’appaltatore fornisce al committente un’opera o un servizio, da realizzare tramite la propria organizzazione (uomini e mezzi), assumendosi il relativo rischio imprenditoriale connesso; la somministrazione, invece, ha per oggetto un “dare”, in quanto il somministratore si limita a fornire al terzo “forza lavoro” da lui assunta, affinché questi ne utilizzi la prestazione.

L’appalto, quindi è fittizio e concretizza illecita interposizione di manodopera, quando lo pseudo-appaltatore si limita a mettere a disposizione dello pseudo-committente mere prestazioni lavorative, risultando i lavoratori di fatto sottoposti al potere organizzativo e direttivo di quest’ultimo. Nell’ultimo caso – va, infatti, premesso, a questo punto, che l’attività di somministrazione di manodopera è esercitabile solo da soggetti all’uopo espressamente e specificamente autorizzati dal Ministero – il somministratore abusivo andrà incontro a severe sanzioni pecuniarie , mentre il fruitore della manodopera sarà ritenuto ad ogni effetto di legge l’effettivo datore di lavoro dei dipendenti illegittimamente somministrati, con tutte le conseguenze in termini di costi, oneri retributivi, fiscali e previdenziali.

In proposito, l’orientamento della giurisprudenza più recente ha individuato in dettaglio alcuni indici fattuali dai quali desumere l’effettivo atteggiarsi in concreto dell’appalto “non genuino”, fra cui la richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro, l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente, l’identità fra l’attività svolta dal personale dell’appaltatore e quella svolta dal personale del committente, la proprietà in capo alla committenza delle attrezzature necessarie all’espletamento delle attività e l’organizzazione da parte del committente delle attività dei dipendenti dell’appaltatore.

L’uso dell’istituto in parola dovrà quindi essere sempre assai cauto e portato avanti con l’assistenza di validi consulenti legali, specializzati in materia.

Roberta Romeo

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