Affari legali

AFFARI LEGALI. Semplificazione dei processi: verso il rito unico civile “del lavoro”?

Prospettiva rosea, a patto che si proceda prima a rendere assai più efficiente il funzionamento degli uffici amministrativi esistenti nei Tribunali

Il problema dell’eccessiva durata dei processi, soprattutto nel campo del diritto civile, si presenta sin dal 1950, data della prima “riforma” – che meglio sarebbe definire “controriforma” – del vigente Codice di Procedura.

In quella data, vanificando i significativi passi in avanti compiuti dieci anni prima con il varo dell’allora nuovo codice, si era sostanzialmente ritornati al vecchio “processo scritto”, nel quale con la redazione di atti e memorie, perfino in udienza, in sostituzione dei verbali di cancelleria, il principio di oralità ed immediatezza (ossia della prevalente trattazione della causa in forma orale, in aula davanti al giudice) da tanti invocato quale presupposto per la riduzione dei tempi della giustizia, era del tutto sconosciuto.

La prima reale spinta verso il ripristino di un processo che potesse svolgersi in poche udienze, fra loro ravvicinate o, se possibile, concludersi addirittura in un’unica udienza, fu compiuta nel 1973, con l’introduzione del cosiddetto “rito del lavoro” che fu, fra l’altro, il primo a prevedere la provvisoria esecutività ex lege delle sentenze di primo grado. Con quella riforma, tuttora in vigore, gli atti scritti nel processo del lavoro sono limitati sostanzialmente a quelli che ciascuna delle parti redige e deposita al momento della costituzione per esporre le proprie ragioni.

In tali atti, detti introduttivi, ognuno degli “attori processuali” è quindi obbligato a svolgere interamente le proprie difese, esponendo i motivi di fatto e di diritto posti a fondamento delle domande di cui chiede l’accoglimento; essendo preclusa, salvo casi eccezionali in cui il giudice lo ritenga giustificato, la possibilità di depositare scritti integrativi. Per il resto, la trattazione della causa avviene interamente in forma orale, in udienza ovvero presso la sede di svolgimento delle operazioni peritali, nel caso venga disposta una consulenza. Perfino la fase conclusiva non prevede, il deposito di alcuna memoria scritta, essendo invece demandata l’esposizione delle conclusioni ad una discussione interamente orale, analogamente a quanto avviene per le “arringhe” nel processo penale.

Ed è proprio a quello penale che il processo del lavoro si avvicina nella sua struttura, per effetto di questa sua preponderante oralità e del fatto che ciascuna delle parti in causa debba “scoprire le proprie carte” fin dall’inizio, meccanismo che, con termine mutuato dalla terminologia anglosassone, si chiama “discovery”. Detta duplice caratteristica conferisce al rito del lavoro una maggiore semplicità, che rende i suoi tempi mediamente assai più brevi di quelli del cosiddetto “rito civile ordinario”.

In realtà anche quest’ultimo ha subito, fortunatamente, tutta una serie di riforme che, a partire dal 1993,con l’introduzione pure in questo settore della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, e fino agli ultimi interventi del 2009 – 2011, ne hanno snellito la struttura, seppure non al punto da renderla identica a quella del processo del lavoro. Tanto che, per fare un esempio, i tempi medi di attesa delle cause di primo grado in un foro importante come Milano, quanto meno secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia nel 2016, sono passati da circa 5 anni ad 885 giorni, quasi dimezzandosi.

Senonché, questo lento processo di assimilazione del rito civile da parte di quello del lavoro dovrebbe, secondo taluni, trovare il suo sbocco naturale nella loro unificazione, e quindi nella sostanziale scomparsa del “rito civile ordinario”, in favore di quello “lavoristico”. Recentemente, il Ministro Guardasigilli in carica ha più volte dichiarato che intende elaborare e sottoporre al Parlamento un disegno di legge che vada in questa direzione, nell’ottica di una generale velocizzazione dei meccanismi processuali.

La prospettiva in sé potrebbe essere rosea, a patto che si proceda prima a rendere assai più efficiente il funzionamento degli uffici amministrativi esistenti nei Tribunali e ad organizzare con criterio quelli deputati propriamente all’esercizio della funzione giurisdizionale, il cui timone è ancora oggi affidato troppo spesso a magistrati nominati in base all’anzianità. Con il risultato di avere sedi come Monza e Milano che, già oggi, esitano procedimenti “civili” in tempi ragionevolmente brevi ed altri uffici che, anche nelle cause trattate secondo il più agile e celere rito del lavoro, evidenziano tempi inaccettabilmente lunghi, con l’inevitabile effetto di veder frustrate le aspettative di giustizia degli utenti che ad essa si devono rivolgere.

La preparazione tecnica e gestionale del personale è essenziale, soprattutto in un campo come quello dell’amministrazione della giustizia, e dovrebbe essere preliminare a qualsiasi riforma di carattere normativo; poiché, è bene ricordarlo, “un sistema legislativo, anche il più perfezionato, non è mai migliore degli uomini che sono chiamati a maneggiarlo” (A. Einstein, 1927).

Roberta Romeo

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