Storia

IL CASO MORO. Il tragico epilogo

Quel primo pomeriggio di 40 anni fa

Le parole scritte nell’ultimo comunicato delle Brigate Rosse, il numero 9, non lasciavano aperte molte speranze per le sorti di Aldo Moro. “Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”.

Una decisione estrema che però non era stata condivisa da tutto il gotha brigatista. Moretti giocò la sua ultima carta con una telefonata fatta il 30 aprile del 1978 alla moglie dello statista democristiano, nella quale la sollecitava ad esercitare ulteriori pressioni sui vertici della Democrazia Cristiana per far sì che la trattativa venisse accettata dal Partito e quindi, dallo Stato. L’esito è cosa nota.

Adriana Faranda, una dei brigatisti coinvolti nel sequestro, riferì di una riunione tenutasi a Milano, qualche notte prima del 9 maggio. Lei, insieme a Valerio Morucci, Franco Bonisoli e probabilmente altri, si dissero contrari alla sentenza di morte. La spaccatura che si era venuta a creare, per quanto detto dalla Faranda, fece sì che i brigatisti mettessero ai voti la scelta definitiva.

Si arrivò dunque al 9 maggio: il cinquantacinquesimo giorno. Ad eseguire la sentenza di morte di Aldo Moro fu Mario Moretti affiancato da Germano Maccari. I brigatisti fecero ritrovare il corpo senza vita di Moro, all’interno di una Renault 4 rossa targata Roma N57686, parcheggiata in Via Caetani, una strada del Centro di Roma, a metà tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista Italiano: difficile pensare ad un caso.

Quanto avvenne prima dell’omicidio lo raccontarono gli stessi brigatisti dopo più di dieci anni. La loro versione dei fatti voleva che Moro fosse svegliato all’alba. Gli dissero che lo avrebbero trasferito in un altro covo ma, secondo altri, gli venne detto che sarebbe stato liberato. Lo statista venne fatto entrare in una cesta di vimini e trasportato nel garage dell’edificio di Via Montalcini, dove si trovava il covo brigatista. A questo punto, venne fatto entrare nel portabagagli della Renault che avevano rubato alcuni mesi prima. Moro venne quindi coperto con un lenzuolo rosso e fu allora che i terroristi aprirono il fuoco sullo statista. Dapprima fu Moretti con una Walther PPK calibro 9×17 corto ma l’arma si inceppò. A quel punto, impugnata una Samopal Vzor 61, meglio nota come Skorpion, una mitraglietta calibro 7,65, esplose una raffica di 11 colpi. Moro venne raggiunto ai polmoni restando ucciso.

Questa versione dei fatti sconfessa la precedente che voleva Prospero Gallinari, autore materiale del delitto. Una versione che però presenta qualche crepa: come fu possibile sparare una raffica con una mitraglietta, coprendo totalmente il rumore delle detonazioni? Anche se silenziata, questo è impossibile.

A trasportare il corpo di Moro nella R4 sul luogo del ritrovamento, sarebbero stati Moretti e Maccari. La vettura venne parcheggiata a circa un’ora di distanza dal delitto. Non ci furono soste e nell’ultimo tratto di percorso, Moretti e Maccari vennero scortati da Bruno Seghetti e Valerio Morucci che li seguirono a bordo di una Simca.

Intorno alle 12,30, Morucci telefonò al Professor Francesco Tritto che era uno degli assistenti di Moro e gli comunicò dove avrebbero potuto trovare il corpo dello statista, dandogli come riferimento i primi numeri di targa.

Tritto aveva il telefono sotto il controllo delle Forze dell’Ordine che, intercettata la telefonata, si precipitarono sul posto. Prima delle 14, gli esponenti di tutti i partiti erano stati informati del ritrovamento del corpo di Moro.

I primi esami autoptici stabilirono che la morte di Moro risaliva tra le 9 e le 10 della mattina del 9 maggio; questo però, stride con la versione dei brigatisti che affermarono di averlo ucciso tra le 7 e le 8. A questo si aggiunge il buco temporale che intercorre tra il parcheggio della vettura in Via Caetani e la telefonata a Tritto. I brigatisti spiegarono che prima di Tritto, provarono a contattare altre persone vicine a Moro ma senza successo. Testimoni affermano di aver visto la R4 parcheggiata in Via Caetani sin dalle 7 e le 8 del mattino, mentre altri affermano che la vettura, prima delle 12,30 non c’era.

Un altro mistero è dato dal fatto che nel risvolto dei pantaloni indossati da Moro, venne trovata sabbia in considerevole quantità, resti vegetali e terriccio. I brigatisti dissero che la sabbia ed il resto era stato messo apposta per depistare le indagini relative al covo. Questi elementi sono diventati oggetto di analisi da parte del fratello dello statista, il magistrato Carlo Alfredo Moro. In un suo libro, sostiene l’ipotesi che il luogo di prigionia del fratello non sia stato in Via Montalcini ma in qualche località marittima. A questo si aggiunge un altro dato: l’autopsia eseguita sul corpo di Moro ne descrive un uomo in buona salute, muscolarmente tonico e quindi, difficilmente vissuto negli ultimi giorni in un luogo angusto, situazione che avrebbe lasciato tracce fisiche. A corroborare l’ipotesi che Moro non sia stato detenuto in Via Montalcini, anche alcune contraddizioni in sede testimoniale. Ancora oggi, non esiste una verità certa nel merito.

L’epilogo del sequestro di Moro comportò un terremoto politico che vide come prima conseguenza, le dimissioni di Francesco Cossiga da Ministro degli Interni. La famiglia dello statista respinse qualunque celebrazione di Stato. In una Nota i congiunti di Moro affermarono: “Nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso: nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.

In una delle pubblicazioni precedenti de ‘Il Caso Moro’, ho parlato delle lettere che Moro scrisse durante i 55 giorni del sequestro, omettendone volutamente una: l’ultima e forse, la più struggente. Ho infatti scelto di concludere questo reportage con la lettera che Moro scrisse alla moglie Nora, quando ormai gli era assolutamente chiaro come sarebbero andate le cose. Vi invito a leggerla e stabilirete voi se sono queste le parole di un uomo che viveva in regime di sudditanza psicologica verso i suoi carcerieri.

Antonio Marino

Mia dolcissima Noretta,

dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell’incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione.

Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto.

Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare.

E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi.

Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze.

Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.

Sono le vie del Signore.

Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno.

Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo.

Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto.

Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna, Mario, il piccolo non nato, Agnese, Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto.

Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta.

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Antonio Marino

Cinquantunenne ma con lo spirito da eterno ragazzo. Adoro la compagnia degli amici con la 'A' maiuscola, la buona tavola e le buone birre. Appassionato di politica ma quella con la 'P' maiuscola, sposato più che felicemente. Difetti: sono pignolo. Pregi: sono pignolo

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