Storia

9 agosto 1918: gli italiani danno lezione di eroismo al mondo intero. Con il “folle volo” su Vienna la squadra di D’Annunzio entra nella leggenda

Lo scorso 4 novembre si sono conclusi gli anniversari per i cento anni dalla fine della Grande Guerra a della vittoria; questo però non significa che la nostra rubrica di storia non si occuperà più degli avvenimenti di quel conflitto. E difatti con questo articolo vogliamo ricordare un epico avvenimento che ebbe una risonanza enorme tra le genti che erano coinvolte in quella tragedia, e che rappresenta un’impresa davvero ardimentosa; stiamo parlando di quello che è passato alla storia come il “volo su Vienna”.

L’impresa fu concepita dal poeta soldato, quel Gabriele D’Annunzio che sarà protagonista della vita dell’Italia di quegli anni di conflitto ed anche di quelli immediatamente successivi: compiere un volo sulla capitale dell’Impero Austro-Ungarico e fare ritorno in Italia sani e salvi. Si, sani e salvi va sottolineato, perché per quell’epoca, e con quei mezzi, compiere una tale impresa era davvero qualcosa al limite della follia: a quei tempi voleva dire fare un lungo viaggio di andata e ritorno, non solo sulla capitale di un potente nemico, ma su dei trabiccoli di legno e di tela che, a guardarli oggi, viene da chiedersi quale livello di sprezzo del pericolo (e forse anche una buona dose di follia, appunto) ci volesse per saltare su quei marchingegni (che a noi fanno sorridere, ma per i contemporanei erano veri prodigi della tecnica, quasi un simbolo del progresso).

Cominciamo col dire che gli apparecchi erano degli SVA, acronimo relativo ai due progettisti (Verduzzo e Savoia) e della ditta costruttrice (l’Ansaldo); si trattava di biplani, ossia aerei con due ali sovrapposte, dotati di un motore da 205 cavalli che permetteva di arrivare alla velocità da capogiro per l’epoca di 220 chilometri orari.

L”impresa ebbe vari ritardi, sia per questioni tecniche legate soprattutto all’autonomia di volo dato che significava compiere un viaggio di mille chilometri e per quell’epoca era moltissimo; sia perché l’eventuale cattura di D’Annunzio avrebbe rappresentato per gli austriaci un’arma propagandistica di valore incalcolabile. Difatti il poeta soldato era all’epoca un personaggio rinomatissimo in Italia ed all’estero, tanto che si narra che dopo Caporetto i soldati austro-tedeschi che marciando da vincitori incontravano le colonne di soldati italiani prigionieri, li sbeffeggiassero chiedendo loro “D’Annunzio?”, come a dire, ed ora che avete preso questa batosta dov’è il vostro eroe? E’ chiaro quindi che rischiare che un uomo simbolo di tale presa sull’opinione pubblica cadesse prigioniero del nemico non era cosa da poco. Comunque si decise di compiere l’impresa; anche perché se è vero che in caso di fallimento, magari con la cattura del poeta, sarebbe stato un disastro immane, è altrettanto vero che se l’impresa fosse riuscita sarebbe stato, non solo un trionfo, ma questa volta l’arma propagandistica di valore incommensurabile sarebbe stata nelle mani degli italiani: compiere un rischiosissimo volo nientemeno che sulla capitale nemica e fare ritorno in patria, avrebbe significato che ormai l’Italia era talmente più forte, sicura e superiore all’Austria che la vittoria sarebbe stata solo questione di tempo; e che impatto sul morale degli italiani!

Dopo varie prove e simulazioni, si decise di partire. Si tentò il 2 agosto del 1918, ma il maltempo fece naufragare l’impresa; si ritentò il giorno 8, ma fu un fallimento sempre a causa delle avverse condizioni meteo. Si ritentò quindi il giorno successivo: alle 5:30 del 9 agosto del 1918 dal campo di aviazione di San Pelagio (presso Padova), undici apparecchi SVA recanti il simbolo tricolore presero il volo.

Le difficoltà tecniche del volo a quell’epoca erano una costante, e difatti tre apparecchi dovettero atterrare poco dopo il decollo, mentre un altro dovette atterrare in territorio nemico ed il pilota fu preso prigioniero dagli austriaci (fece però in tempo ad incendiare l’apparecchio). I restanti sette proseguirono nella loro missione, senza essere contrastati dalla caccia nemica; due velivoli austriaci avvistarono la formazione italiana, fecero ritorno alla base per informare i loro comandi, ma non furono creduti (il che la dice lunga su quanto quell’impresa “folle” fosse considerata rischiosa!). Nel proseguire il loro viaggio, i sette apparecchi attraversarono i territori invasi dopo Caporetto, dove molti nostri compatrioti soffrivano l’oppressione del nemico invasore, per poi passare su quell’Isonzo che aveva visto morire centinaia di migliaia di soldati italiani nelle offensive di Cadorna.

Alle ore 9:20 i velivoli italiani giunsero finalmente sulla capitale nemica. Il cielo era limpido, cosa che permise alla formazione di scendere di quota, mentre una folla di viennesi guardava atterrita gli apparecchi: era chiaramente una formazione di aerei italiani, pronti senz’altro a colpire duramente la città. Ma non fu così. Dagli aerei italiani non bombe furono lanciate ma volantini, uno dei quali redatto dallo stesso D’Annunzio, recitava

In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza, l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si volge.

Il destino si volge. Si volge verso di noi con una certezza di ferro. È passata per sempre l’ora di quella Germania che vi trascina, vi umilia e vi infetta.

La vostra ora è passata. Come la nostra fede fu la più forte, ecco che la nostra volontà predomina e predominerà sino alla fine. I combattenti vittoriosi del Piave, i combattenti vittoriosi della Marna lo sentono, lo sanno, con una ebbrezza che moltiplica l’impeto. Ma, se l’impeto non bastasse, basterebbe il numero; e questo è detto per coloro che usano combattere dieci contro uno. L’Atlantico è una via che già si chiude; ed è una via eroica, come dimostrano i nuovissimi inseguitori che hanno colorato l’Ourcq di sangue tedesco.

Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza, non siamo venuti se non per la prova di quel che potremmo osare e fare quando vorremo, nell’ora che sceglieremo.

Il rombo della giovane ala italiana non somiglia a quello del bronzo funebre, nel cielo mattutino.

Tuttavia la lieta audacia sospende fra Santo Stefano e il Graben una sentenza non revocabile, o Viennesi.

Viva l’Italia!

Oltre a questi volantini (50.000 copie), ne furono lanciati altri 350.000 con un testo ben più efficace scritto da Ugo Ojetti, scrittore e giornalista italiano, nonché prestigiosissima firma del Corriere della Sera.

VIENNESI!

Imparate a conoscere gli italiani.

Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà.

Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne.

Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.

VIENNESI!

Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s’è volto contro di voi.

Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandola.

POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati!

VIVA LA LIBERTÀ!

VIVA L’ITALIA!

VIVA L’INTESA!

Ovviamente i testi erano in italiano ed in tedesco.

Una volta lanciati i volantini, la formazione fece rotta per l’Italia, ed alle 12:40 atterrarono a San Pelagio; in sette ore e dieci minuti di volo coprirono una distanza di circa 1.000 chilometri, di cui 800 in territorio nemico: un impresa storica, epica, eroica, ardimentosa… e di un valore morale e propagandistico incalcolabile, che ebbe una risonanza enorme in Italia, nei paesi alleati, e soprattutto in Austria. Si, perché quell’impresa che non aveva alcun valore dal punto di vista militare, assunse un significato psicologico enorme; in sostanza il messaggio lanciato agli austriaci andava ben oltre il contenuto del testo dei volantini; con quel gesto aviatorio si stava dicendo all’opinione pubblica austriaca: noi italiani siamo in grado di compiere imprese di questa portata, possiamo volare indisturbati sul vostro territorio, addirittura sulla vostra capitale, lanciare volantini quando volendo potremmo lanciarvi addosso bombe; che speranze avete di vincere la guerra contro un nemico così? Una “mazzata” psicologica che pesava per gli austriaci come una battaglia persa. E per gli italiani fu un trionfo che aveva il valore di una vittoria sul campo: siamo capaci di compiere una tale impresa e il nemico non è stato in grado di impedircelo; siamo allora noi i più forti e la vittoria è davvero a portata di mano. E per un popolo in guerra una tale presa di coscienza ha un valore morale enorme, soprattutto per i soldati: per un uomo che combatte e rischia la propria vita sul campo ogni giorno, la consapevolezza di essere più forte del nemico non è cosa da poco.

Gli aviatori italiani compirono un’impresa veramente eccezionale, che è passata alla storia dell’aviazione; e grande fu il merito di chi quell’impresa la concepì, la volle e la condusse sapendola portare a termine in mezzo a mille pericoli e difficoltà. Gabriele D’Annunzio fu un personaggio quantomeno discutibile, che aveva disprezzo per il Parlamento e per la vita democratica, e che fu poi osannato in epoca fascista (anche se tra lui e Mussolini i rapporti non erano proprio idilliaci); tra l’altro all’epoca della storica impresa il poeta soldato era un uomo di 55 anni che nel 1916 aveva anche perso un occhio in un incidente aereo. Con il volo su Vienna D’Annunzio fu artefice di qualcosa di veramente grandioso, che contribuì in maniera determinante a tenere alto il morale dell’Italia sfiancata da quella lunga e sanguinosissima guerra, che di li a pochi mesi si sarebbe conclusa con la nostra vittoria anche grazie a quel “folle volo”.

Marco Ammendola

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Marco Amendola

Anche se faccio tutt'altro lavoro, sono da sempre appassionato di storia, un romanzo talmente avvincente che non necessita di un finale a sorpresa
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