Costume e Società

L’Italia è in recessione demografica

Il Rapporto annuale dell'ISTAT consegna numeri preoccupanti

Il 2018 conferma le tendenze degli ultimi anni, fortemente caratterizzate dal calo delle nascite, dall’invecchiamento della popolazione e, a partire dal 2015, da una perdita di residenti. E’ quanto emerge dal Rapporto annuale dell’ISTAT. Le proiezioni dell’Istituto di statistica, per il futuro accreditano come altamente verosimile la prospettiva di un’ulteriore riduzione di popolazione residente nei prossimi decenni. In tal senso si prevede un primo leggero ridimensionamento, da 60,4 a 60,3 milioni di abitanti tra il 2019 e il 2030, per poi subire un calo ben più accentuato che porterebbe la popolazione nel 2050 a 58,2 milioni, con una perdita complessiva di 2,2 milioni di residenti rispetto a oggi.

D’altra parte non va dimenticato che i meccanismi demografici che sottendono un’ipotesi di regresso numerico – riduzione della consistenza delle coorti di donne in età feconda (con la conseguente contrazione delle nascite) e progressivo invecchiamento della popolazione (con l’inevitabile incremento dei decessi) – sono già largamente impliciti nella struttura per età di oggi. Basti pensare che le generazioni del baby boom degli anni ’60 sono ormai sostanzialmente uscite dall’intervallo delle età riproduttive e si accingono a entrare nella così detta “terza età”. Tale passaggio, destinato a combinarsi col persistere delle tendenze all’allungamento della sopravvivenza e al calo della natalità – due fenomeni cui si dirà tra breve – si configura come una determinante fondamentale nel dar vita al massiccio invecchiamento demografico che si affaccia incombente nel futuro della popolazione italiana.

Le proiezioni Istat prevedono che nel 2050 la quota di ultra65enni sul totale della popolazione potrebbe ulteriormente aumentare rispetto al livello del 2018 (pari al 23 per cento) tra 9 e 14 punti percentuali, secondo ipotesi più o meno ottimistiche. Alla stessa data, la percentuale di popolazione di età 0-14 anni potrebbe mantenersi, nel migliore dei casi, attorno al livello attuale (13,5 per cento), ma anche scendere al 10,2 per cento nello scenario meno Sintesi favorevole. In parallelo, la quota dei 15-64enni sembra verosimilmente destinata a ridursi al 54,2 per cento del totale, con un calo di circa dieci punti percentuali che equivale a oltre 6 milioni di persone in età da lavoro in meno rispetto a oggi.

Questi cambiamenti, in assenza di significative misure di contrasto, potrebbero determinare ricadute negative sul potenziale di crescita economica, con impatti rilevanti sull’organizzazione dei processi produttivi e sulla struttura e la qualità del capitale umano disponibile; non mancherebbero altresì di influenzare la consistenza e la composizione dei consumi delle famiglie, con il rischio di agire da freno alla domanda di beni e servizi. L’accentuarsi dell’invecchiamento demografico comporterebbe, inoltre, effetti significativi sul livello e sulla struttura della spesa per il welfare: con pensioni e sanità decisamente in prima linea, pur mettendo in conto che gli anziani di domani saranno in migliori condizioni di salute e di autonomia funzionale.

In proposito è utile sottolineare che se oggi garantire un’assistenza dignitosa a quasi 14 milioni di ultra65enni sembra, oltre che doveroso, ancora possibile, è opportuno interrogarsi “se” e “come” saremo in grado di soddisfare la stessa domanda anche solo tra vent’anni, allorché gli anziani saranno saliti di altri 5 milioni. Ma soprattutto c’è da chiedersi quali strategie andranno avviate per garantire la tenuta degli equilibri di welfare – e in primo luogo proprio nel campo della salute – se si mette in conto lo straordinario prevedibile accrescimento del numero dei “grandi vecchi”: gli ultra90enni, oggi circa 800 mila, sono destinati ad aumentare di oltre mezzo milione nei prossimi vent’anni e, al loro interno, persino gli ultra centenari, attualmente 14 mila, dovrebbero superare le 50 mila unità.

Il fatto che la vita si allunghi non può che essere una buona notizia. Ma non va dimenticato che una vita più lunga significa anche un maggior rischio e una crescente frequenza di tutte quelle patologie, cronicità e disabilità tipicamente connesse alla vecchiaia.

Acquisire consapevolezza, di questo come di ogni altro problema emergente, con argomentazioni rese oggettive da appropriati dati statistici, si configura come irrinunciabile premessa per governare il cambiamento, garantendo elevati livelli di qualità della vita ai cittadini.

La Voce

 

Fonte: ISTAT

Mostra Altro

Redazione La Voce

Quotidiano d'informazione e cultura nazionale ed internazionale, fondato nel 2014
Pulsante per tornare all'inizio